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La persona al centro della nostra assistenza

Dalla nascita di questo blog ad oggi mi sono spesso imbattuto su una domanda alla quale ho avuto, ed ho tuttora, difficoltà a dare una risposta esaustiva. Fare l’Oss è una professione o una missione? Si tratta di un quesito che ha sempre sollevato un dibattito tra gli addetti ai lavori. C’è chi considera questa attività un mestiere come tutti gli altri, forse con rischi e responsabilità maggiori perché connessi ad un mondo imperfetto e pieno di lacune come quello della sanità italiana. Un lavoro che richiede molti sacrifici (penso agli operatori fuori sede o a quelli impiegati in questi giorni nei reparti Covid) ma che tutto sommato vale la pena svolgere. C’è poi un’altra corrente di pensiero ed è quella sostenuta da coloro che ritengono che fare l’Oss sia una missione, una sorta di chiamata alla quale non si sono sentiti di tirarsi indietro. Non una professione dunque, ma una vocazione, una scelta di vita, una naturale attitudine all’aiuto verso chi è in difficoltà e ha bisogno in qualche modo di loro. Lungi da me fare della retorica, ma credo che la verità, almeno secondo il mio modesto punto di vista, stia nel mezzo, come spesso accade in molte altre cose.

L’attività dell’operatore socio sanitario è innanzitutto una professione e come tale va trattata. Qualche mese fa ho scritto un articolo dal titolo “Sei condizioni che un Oss non dovrebbe mai accettare”, in cui facevo riferimento agli abusi (e ai soprusi) che quotidianamente subisce la nostra categoria: dal lavoro sottostimato a quello in nero, dalla carenza di personale all’insufficienza nelle strutture sanitarie dei dispositivi di protezione individuale (guanti, mascherine, ecc.). Insomma, il nostro lavoro merita una dignità professionale e comportamenti come quelli appena descritti non dovrebbero esistere. Eppure non solo esistono, ma sono abbastanza diffusi in questo mondo così da rappresentarne una triste consuetudine, soprattutto nel Sud Italia.

Dopo questa considerazione torno alla domanda iniziale: l’attività dell’Oss può essere considerata solo una professione? La mia risposta, forse scontata, è ovviamente no.

L’operatore socio sanitario è a stretto contatto con la sofferenza umana. La percepisce e la vive quotidianamente. In una struttura sanitaria o assistenziale l’Oss è la figura più vicina al paziente e, scusate la presunzione, è colui che lo conosce meglio di ogni altro. Più del medico o dell’infermiere, che sono principalmente al corrente delle loro patologie e delle conseguenti aspettative di vita ad esse connesse. L’Oss conosce le abitudini del paziente con il quale spesso si trova a condividere alcuni sprazzi di vita. A chi, nel nostro ambiente, non è mai capitato di ascoltare frasi aberranti utilizzate semplicemente per identificare un paziente del quale non si ricorda il nome? “La signora con il catetere”, “l’anziano con il tumore”, eccetera. I pazienti non sono patologie, ma persone.  Non bisogna mai fermarsi ad una considerazione fredda e superficiale sul paziente, inteso come soggetto affetto da una patologia più o meno grave, ma ci si dovrebbe ogni giorno impegnare a guardare oltre. Dietro al paziente si cela una persona, con una storia, un vissuto, delle emozioni e dei sentimenti. La nostra assistenza è innanzitutto rivolta alla persona e non all’anziano, al disabile o al malato terminale. La persona è dunque deve essere al centro della nostra attività professionale. Soltanto così potremo essere degli operatori migliori.

Marco Amico

Operatore Socio-Sanitario, blogger e giornalista. Ho 37 anni, una laurea in Lettere e Filosofia e la passione per la scrittura, le serie TV, le bici. Lavoro in una casa di riposo e nel tempo libero scrivo articoli d'interesse socio-sanitario.

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